Squillino le trombe: l’Italia ha chiuso il 2016 con una crescita dello 0,9% (dell’1% considerando il PIL corretto per gli effetti di calendario). Uno 0,1% in più rispetto alle stime. Standing ovation dei renziani.
Ma a ben guardare, per la verità, non c’è proprio niente da festeggiare. Ritappate lo champagne. Nel 2016, l’Italia è stato l’unico Paese europeo (escluso il caso particolare della Grecia alle prese con il terzo piano di salvataggio) a crescere meno dell’1%. E secondo le stime europee nel 2017 saremo gli ultimi della classe, anche peggio della Grecia.
In un contesto di crescita globale generalizzata spinta da eccezionali fattori positivi, il PIL italiano resta comunque con il freno a mano tirato. Una crescita dell’1% scarso dopo sette anni di feroce crisi non è in grado nemmeno di smuovere la ripresa. Lo confermano, per esempio, i dati sul lavoro: la disoccupazione resta alta e, in particolare quella giovanile, alle stelle, nonostante le dosi di morfina iniettate al mercato del lavoro dal Governo Renzi e dal suo Jobs act.
Ma diciamolo, non è colpa del Governo Renzi. I problemi italiani vengono da molto più lontano e l’unica colpa (comunque grave) da addossare all’ex premier è quella di avere sprecato la possibilità di cavalcare un periodo di espansione globale sperperando soldi con mancette e riforme di cartapesta.
Non solo quindi non c’è niente da festeggiare oggi, ma dobbiamo anche prepararci ai dolori di domani. Il PIL 2016 allo 0,9% ci permette, per usare una metafora, di arrivare serenamente alla fine del mese, ma chissà se potremo dire lo stesso alla fine dell’anno. Se non riusciamo a correre in un periodo di espansione, cosa accadrà al prossimo periodo di rallentamento o recessione?
PIL
Nel quarto trimestre del 2016 il PIL italiano è cresciuto dello 0,2%, portando il dato finale dell’anno allo 0,9% grezzo, ben un decimale in più rispetto alle stime. Un successone. Ma se dal nostro piccolo orticello allarghiamo lo sguardo all’Unione europea, all’economie con le quali dobbiamo confrontare i nostri risultati, il paragone diventa impietoso.
Alla crescita italiana corrispondono valori più significativi in tutti i paesi dell’Eurozona (ad eccezione della Grecia che ha chiuso il 2016 con una caduta del PIL di quattro decimali e in crescita di appena lo 0,3% su base annuale). La Germania registra una crescita congiunturale dello 0,4%, (+1,8% su base annua); +0,4% la Francia (+1,1%); +0,7% la Spagna (+3%). Fuori dall’Eurozona, che in generale è cresciuta dello 0,5% congiunturale e del 1,7% tendenziale, il Regno Unito ha fatto +0,6% (+2,2% il tendenziale) mentre negli Stati Uniti la crescita è stata dello 0,5% nel quarto trimestre (+1,9%).
In pratica come mostra il grafico sotto, escludendo la Grecia, l’Italia è l’unico Paese ad essere cresciuto meno dell’1%.
A confermarlo è il Winter Forecast della commissione europea pubblicato nei giorni scorsi. Il rapporto spiega che per la prima volta dal 2008, le previsioni della Commissione indicano una crescita economica in tutti gli Stati membri dell’UE per l’intero periodo di previsione (2016, 2017, 2018). Anche gli Stati membri più colpiti durante la recessione – precisa il documento – sono tornati a crescere lo scorso anno, ma l’impatto dell’apprezzamento del dollaro statunitense e gli alti tassi di interesse a lungo termine, tuttavia, potrebbero aumentare le differenze nei tassi di crescita tra gli Stati membri.
E così in effetti accadrà. Guardando alle previsioni del 2017 infatti, l’Italia sarà l’unico Paese dell’Unione europea e dell’Eurozona a non superare l’1% di crescita. E farà meglio di noi anche la Grecia, un paese sull’orlo del fallimento e con la Troika in casa.
Disoccupazione
La crescita italiana quindi resta al palo, nonostante alla fine della fase più acuta della crisi economica abbia fatto seguito un periodo di espansione globale. Il prezzo basso dell’energia, la liquidità della BCE, ma soprattutto lo scudo sugli interessi dei titoli di Stato innalzato da Mario Draghi ha creato le condizioni favorevoli alla ripresa. L’Italia, come hanno fatto altri Paesi UE, avrebbe dovuto cavalcare quest’onda perfetta e mettere a segno 2-3 anni di crescita sostenuta, l’unica cosa in grado di piegare il tasso di disoccupazione, vero cancro del Paese. Ma la crescita non c’è stata e i piccoli margini di manovra sui conti pubblici sono stati utilizzati per iniettare morfina ad un mercato del lavoro in coma profondo. Gli sgravi fiscali introdotti del Jobs act di Renzi hanno soltanto drogato il paziente per qualche mese, senza guarire la malattia. Il costo dell’operazione è stato ben più alto del rendimento.
Non solo. Come nota Mario Seminerio su Phastidio, guardando le previsioni, il costo del lavoro in Italia il prossimo anno è stimato al rialzo. Finiscono infatti i tre anni di sgravi fiscali sui nuovi contratti: la “normalizzazione” del costo del lavoro provocherà altri scossoni al mercato e potrebbe anche spingere al rialzo i licenziamenti (con il contratto a tutele crescenti introdotto del Governo Renzi si può licenziare senza problemi nei primi tre anni di contratto, guarda caso).
Anche per quanto riguarda la disoccupazione restermo tra gli ultimi della classe in Europa. Come mostra il grafico, nel 2016 peggio di noi hanno fatto Grecia, Spagna, Cipro, Croazia; nel 2017 restano indietro Grecia, Spagna, Cipro e nel 2018 faremo meglio soltanto di Grecia e Spagna.
Ma il paragone è impietoso soprattutto se si guarda i tassi di crescita relativi. In termini assoluti, nel 2018, saremo il terzultimo Paese in Europa per tasso di disoccupazione, ma se andiamo a vedere come cambieranno questi tassi vediamo l’enorme divario con gli altri “peggiori” d’Europa: in Grecia la disoccupazione è prevista in calo di 3,1 punti; in Spagna di 3,6; a Cipro di 2,3; in Croazia del 3,5; mentre il tasso di disoccupazione in Italia cala soltanto dello 0,3%.
Produttività
Il PIL può essere definito come la misura del risultato finale dell’attività produttiva dei residenti di un Paese in un dato periodo: la sua crescita è spinta dalla demografia (ovvero più persone lavorano, maggiore è il prodotto, quindi se la popolazione cresce, il PIL seguirà) e dalla produttività, ovvero dalla crescita della quantità di output per ogni ora lavorata, che dipende dall’ambiente economico, politico, sociale e giuridico. In un Paese avanzato, come l’Italia, la demografia non riesce a sostenere la crescita (si fanno meno figli e ci sono sempre più persone inattive, come i pensionati, che devono essere sostenuti da chi lavora), per cui la variabile più importante è la produttività.
Il problema è che da decenni la produttività italiana non cresce, perché nessun governo, di qualunque colore, ha messo in atto riforme in grado di recuperare terreno: non ci sono state riforme del lavoro che abbiano inciso realmente sulla crescita, mentre l’Italia continua ad essere un terreno inospitale per gli investimenti per un milione di motivi, dall’arretratezza tecnologica alla corruzione fino alla lentezza (e all’incertezza) della giustizia.
Come mostra il grafico, la produttività italiana è ferma da praticamente 20 anni. Dal 1996 ad oggi la produttività italiana è cresciuta del 6%, e la grandissima parte di questa crescita si è concentrata alla fine degli negli anni ’90, quando l’Italia aveva ancora un ruolo di primo piano nell’economia europea.
Poi una serie di nodi storici sono venuti al pettine e sono letteralmente esplosi negli anni della crisi. Dagli anni ’90 abbiamo perso la posizione geopolitica privilegiata di penisola in mezzo al Mediterraneo e lo spessore industriale a causa dell’incapacità di riformarci. Valga questo esempio: per poter sopravvivere ad un Paese arrugginito ed espandersi in un mondo sempre più globalizzato i grandi gruppi di eccellenze italiane si sono venduti a banche o altre società stranieri: moda, agroalimentare, meccanica, tutto il meglio del Made in Italy oggi parla un’altra lingua.
Non abbiamo saputo mantenere la nostra centralità e oggi siamo un Paese marginale su cui la crisi economica ha pesato più che altrove. E tutti i Governi che si sono susseguiti negli ultimi anni non hanno saputo invertire la tendenza.
Conclusioni
I “bilanci” 2016 dei Paesi dell’Eurozona e la previsioni della Commissione confermano la presenza di una ripresa stabile nel Vecchio Continente. Cresce il PIL, la produttività, cala la disoccupazione, cresce l’inflazione (ormai vicina all’obiettivo del 2% indicato dalla BCE), tornano gli investimenti.
Ma in questo quadro positivo, l’Italia manterrà la sua posizione di fanalino di coda in più o meno tutte le materie. Resteremo nei bassifondi di queste classifiche ancora per qualche anno. E questo nonostante l’”entusiasmante” stagione renziana delle riforme e soprattutto uno storico periodo di shock eccezionalmente positivi.
Questo quadro può essere un ottimo spunto per due riflessioni. La prima: anche se “qualcosa è stato fatto”, come direbbero i renziani, i dati indicano chiaramente che questo qualcosa è sbagliato e insufficiente. Perchè a parità di possibilità e di contesto positivo con fattori trainanti per la crescita, tutti i Paesi dell’Eurozona e non solo hanno portato a casa risultati migliori dei nostri. Anche i Paesi che navigano nel fango, come la Grecia o hanno accusato la crisi più di noi, come Spagna e Portogallo, sono tornati sui binari della crescita e nei prossimi anni metteranno il turbo sorpassandoci a destra. Questi scarsi risultati, al netto della proroganda e della voglia di vedere a tutti i costi il bicchiere mezzo pieno, sono da imputare al Governo Renzi, che è stato una grande occasione sprecata per il Paese.
Seconda riflessione. La colpa dalla scarsa crescita italiana non dipende dall’Europa e dall’euro. Per quanto rigide e in alcuni casi discutibili, le regole del gioco europeo valgono per tutti i Paesi, ma nonostante questo l’Italia esce sconfitta da ogni battaglia. Ciò significa che il problema siamo noi, non l’Europa o la moneta che abbiamo in tasca.
L’Italia continua a registrare una crescita con il freno a meno tirato nonostante il contesto di espansione globale e la protezione della BCE. Ma il quadro positivo potrebbe convincere Draghi ad avviare la normalizzazione della politica monetaria chiudendo i rubinetti e lasciando i titoli di Stato al loro triste destino. A questo si aggiungono le tensioni politiche di tutti i Paesi che si preparano alle elezioni, la Brexit ancora tutta da scoprire e un presidente degli Stati Uniti che minaccia il commercio globale e non solo. Insomma il contesto globale nei prossimi anni potrebbe peggiorare e per un Paese come l’Italia, che non si è minimamente ripreso dalla crisi dello scorso decennio, saranno dolori.