Era il 22 novembre 2015 quando Commissione europea, BCE e Governo italiano sono riusciti a trovare l’accordo per il salvataggio di quattro banche popolari sull’orlo del fallimento: Banca Marche, Etruria, Carife e Carichieti. Da quel famoso Decreto Salvabanche, che ha applicato per la prima volta in Italia il meccanismo di risoluzione europeo (ma non il bail-in), tanta acqua è passata sotto ai ponti, ma la drammatica situazione del comparto bancario italiano non si è affatto risolta. Anzi.
L’esempio delle quattro banche salvate è indicativo. Ad un anno dal Decreto, le quattro good bank non sono ancora state vendute, ma hanno continuato ad accumulare crediti incagliati. Alla complessa vicenda di Banca Marche, Etruria, Carife e Carichieti si aggiungono quelle delle altre banche italiane che navigano a vista tra aumenti di capitale falliti prima di iniziare, continua crescita delle sofferenze, pressione del mercato, bilanci in rosso e cure dimagranti drastiche che fanno salire dipendenti e sindacati sulle barricate. Il 2016 è stato l’anno in cui molti dei nodi di un comparto bancario clientelare e marcio sono venuti al pettine creando non pochi grattacapi a Governo, mercato e autorità di vigilanza. In occasione dell’anniversario del Decreto Salvabanche e sul finire del 2016 è interessare fare il punto sulla situazione delle banche italiane.
Good bank: un anno dopo
Un anno fa veniva approvato in fretta e furia dal Governo Renzi il Decreto Salvabanche che prevedeva per le quattro banche in dissesto, la nascita di Good bank con i crediti buoni per portare avanti l’attività bancari e un veicolo per lo smaltimento dei crediti deteriorati. Il costo dell’operazione, gestita da Bankitalia e dal Fondo di risoluzione è stato di 3,6 miliardi di euro a carico dell’intero sistema bancario italiano: circa 1,7 miliardi a copertura delle perdite delle banche; circa 1,8 miliardi per ricapitalizzare le banche buone, circa 140 milioni per dotare la banca cattiva del capitale minimo necessario a operare. Secondo le intenzioni del Governo, il rimborso dei costi sarebbe arrivato con la vendita delle quattro Good bank per la quale la BCE ha fissato la scadenza al 21 luglio, dopo la quale sarebbe scattata la risoluzione con il bail-in.
Un anno dopo, la scadenza è stata rinviata più volte perché le uniche due offerte raccolte valeva due spiccoli e non avrebbero potuto coprire i costi dell’operazione. In questi mesi si è rafforzata l’impressione che il salvataggio del 22 novembre scorso sia stato soltanto una perdita di soldi e di tempo. Nelle ultime settimane però qualcosa si è mosso: si sono intensificati i contatti tra il presidente delle Good Bank Roberto Nicastro e UBI banca interessata all’acquisto di Banca Marche, Banca Etruria e Carichieti. Secondo fonti finanziarie l’affare si dovrebbe concludere entro i primi giorni di dicembre.
UBI banca: ipotesi aumento di capitale
Il futuro delle tre Good Bank è in mano a UBI banca che sta trattando con la BCE i termini per l’acquisizione; la decisione finale potrebbe arrivare il 24 novembre. Il problema è che l’operazione potrebbe obbligare UBI banca ad un aumento di capitale da 400-600 milioni di euro per tenere al sicuro il capitale nonostante la spesa per l’acquisto delle banche “ripulite”.
Nonostante un terzo trimestre in linea con le aspettative degli analisti con un miglioramento del CET1 all’11,28%, l’eventuale aumento di capitale preoccupa gli analisti. “Crediamo che l’azione possa rimanere sotto pressione fino a quando non ci sarà più chiarezza sulle prossime operazioni” spiegano da Banca IMI.
MPS: conversione o morte
Particolarmente delicata è la partita che si sta giocando a Siena. La BCE, in seguito ai risultati scadenti degli stress test, ha chiesto a MPS di rafforzare il capitale e liberarsi dei crediti in sofferenza. Così il CDA della banca ha approvato un piano in due fasi che prevede la cessione di circa 27 miliardi di sofferenze lorde (quasi 10 nette) e un aumento di capitale da 5 miliardi la cui realizzazione però, è molto in bilico.
Nei giorni scorsi il Consiglio di amministrazione della banca ha messo nero su bianco per la prima volta la possibilità che MPS finisca in risoluzione con tanto di bail-in. Il CDA ha annunciato la conversione volontaria di 11 milioni di obbligazioni subordinate, del valore complessivo di 4,289 miliardi indispensabile per abbassare l’aumento di capitale. In caso di scarsa adesione, il consorzio di garanzia si tirerà indietro e l’operazione sarebbe destinata a naufragare. A quel punto scatterebbe la conversione forzosa dei bond, scenario che ha spinto alcuni investitori, soprattutto del segmento retail, a vendere i titoli in perdita e chiudere la partita con una minusvalenza. In alternativa, potrebbe intervenire lo Stato o un veicolo pubblico per compensare l’ammanco con una sottoscrizione di nuovo capitale, ma il tutto dovrà essere negoziato con le autorità europee.
Popolare di Vicenza e Veneto banca: Atlante resta con il cerino
I due aumenti di capitale che avrebbero dovuto mettere in sicurezza la Popolare di Vicenza e Veneto banca sono stati un flop clamoroso e adesso le due banche si trovano sommerse dalla cause legali e con un futuro molto incerto. Nei mesi scorsi la Popolare di Vicenza ha fatto un aumento di capitale da 1,75 miliardi con azioni vendute a 10 centesimi (i soci le avevano compreate a 62 euro): l’operazione è andata deserta e il Fondo Atlante ha dovuto comprare il 93% delle azioni offerte facendo saltare la quotazione in Borsa per mancanza di flottante. Poco dopo anche Veneto banca ha fatto un aumento di capitale da 1 miliardo sottoscritto al 97% circa dal Fondo Atlante: per i soci che avevano comprato le azioni a 40 euro, le perdite sono state del 99% del valore dell’investimento. Morale della favola: le operazioni sono state un flop, per i soci delle banche è stato un bagno di sangue e ora i due istituti hanno come principale azionista il fondo Atlante che deve decidere del loro futuro mentre i crediti incagliati continuano ad accumularsi.
Secondo le indiscrezioni, i legali delle banche stanno studiando la creazione di una sorta di Bad bank, adeguatamente capitalizzata per far fronte alle cause legali e alle richieste di risarcimento intentate dai soci. Intanto resta sullo sfondo la necessità di una ricapitalizzazione delle due banche e un’eventuale fusione, ma l’ipotesi che possa essere il Fondo Atlante da solo ad accollarsi il piano è alquanto remota. A dicembre le banche dovranno presentare un piano industriale, ma hanno già annunciato la necessità di fare una dieta drastica di filiali e personale.
Unicredit: maxi copertura per le sofferenze
Occhi puntati anche su Unicredit con il nuovo amministratore delegato che sta lavorando ad un aumento di capitale da 13 miliardi per un maxi accantonamento a copertura dei crediti deteriorati. Nella prima trimestrale 2015 il coefficiente CET1 è risultato pari al 10,85%, in calo di 9 punti base rispetto a fine 2015. L’amministratore delegato, Federico Ghizzoni, nel suo piano industriale, aveva promesso di portare il CET1 al 12,6% entro il 2018, ma il coefficiente di Unicredit ha imboccato la strada opposta. Nel mese di luglio si è consumato il cambio al vertice e il neo amministratore delegato Mustier ha dovuto subito far i conti con i risultati degli stress test che hanno promosso Unicredit con un 6- inserendola tra le ultime banche della classe europea: in caso di grave crisi dell’economia il livello di capitale scivolerebbe sotto il 7,5%, ben al di sotto dell’asticella fissata dalla BCE al 10,5%.
Per questo motivo il prossimo 13 dicembre Unicredit svelerà il suo piano di “revisione strategica”. Secondo le indiscrezioni, Mustier starebbe lavorando un piano per la pulizia delle sofferenze, per chiudere definitivamente con la passata gestione e presentare sul mercato una banca ripulita in grado di rastrellare 13 miliardi di nuovo capitale. Al 30 settembre Unicredit aveva 51,3 miliardi di sofferenze lorde, coperte al 61,9% e quindi svalutate al 38,1%: l’ipotesi sarebbe di una nuova maxi svalutazione fino al 25% che significa dover trovare 6,7 miliardi di ulteriori accantonamenti sulle sole sofferenze. L’importo complessivo dell’operazione dovrebbe aggirarsi intorno ai 13 miliardi, ma per quanto riguarda le modalità sarà necesario attendere il 13 dicembre.
Banco popolare e BPM: matrimonio con sofferenze
Questo matrimonio s’ha da fare: i due CDA hanno approvato il piano per la fusione e dal primo gennaio 2017 il Banco Popolare e la Banca Popolare di Milano lasceranno il posto al BancoBPM. Per convolare a nozze con BPM, il Banco Popolare ha dovuto fare un aumento di capitale da un miliardo, che si è concluso il 22 giugno scorso con i grandi soci della banca che hanno confermato la propria fiducia nel Banco Popolare sottoscrivendo il 99,3% dell’offerta.
Gli analisti però, ritengono che l’aumento di capitale da 1 miliardo non sia sufficiente a rassicurare il mercato sul valore degli asset della banca a causa del costante aumento dello stock di crediti deteriorati. Superato lo scoglio di mettere a punto la fusione e dell’aumento di capitale resta però, l’incognita dei crediti deteriorati, la spada di Damocle che pesa sul comparto bancario italiano. Il rischio è che la Vigilanza possa chiedere un innalzamento delle coperture sui NPL mettendo subito in difficoltà la nuova banca.
BCC: verso il sistema duale
Continua l’iter di riforma del mondo del credito cooperativo che sta andando verso un sistema duale, cioè con due diverse Capogruppo che raggrupperanno tutte le banche del territorio. La riforma renziana del credito cooperativo ha imposto alle BCC l’adesione ad una capogruppo, cioè una BCC abbastanza grande da avere un patrimonio minimo di un miliardo e le caratteristiche per fare da capofila. Lo scatenarsi delle polemiche intorno all’obbligo di adesione, ha convinto il Governo a introdurre una sorta di via d’uscita: le BCC con con almeno 200 milioni di patrimonio possono scendere dalla giostra delle riforma scegliendo la way out cioè pagando allo Stato il 20% delle proprie riserve e deliberare la trasformazione in SPA (opzione esercitata da banca di Cambiano e ChiantiBanca e la Cassa Padana).
Il principale interrogativo, cioè su chi avrebbe avuto il ruolo di Capogruppo, sembra aver trovato recentemente la sua risposta. La candidata numero uno era Iccrea holding, alla quale però, si è affiancata anche Cassa Centrale Banca che, spinta dalle richieste di un gruppo di BCC, si è decisa a proporsi come alternativa a Iccrea. Entro fine anno dovrebbe arrivare la presentazione del piano industriale e la raccolta delle pre-adesioni delle BCC.