Da qualche tempo i problemi delle banche hanno occupato in modo stabile le prime pagine dei giornali. Parole come credit crunch, bail-in, spread, burden sharing, subprime rimbalzano dai TG ai social network entrando nelle lessico dei cittadini. Ma per coloro che non hanno familiarità con il settore ogni parola nasconde un mistero o magari una fregatura.
Partendo dal presupposto che la maggior parte dei contribuenti ha un rapporto con almeno una banca e che il settore bancario è il motore che fa girare l’economia e tiene in piedi il Paese è importante capire cosa sta succedendo e quali rischi si corrono. Dietro ogni anglicismo apparentemente impenetrabile si nasconde una spiegazione semplice, comprensibile anche ai profani, anche a mia nonna. Per questo cerchiamo di spiegare da dove arriva la crisi delle banche, perché è difficile uscirne e quali rischi corrono i soldi depositati negli istituti italiani.
Da dove arriva la crisi economica
I problemi di oggi delle banche derivano in gran parte dalla crisi economica di ieri. Anche mia nonna sa che nel 2007, negli Stati Uniti, è scoppiata una crisi finanziaria che ha travolto l’economia di mezzo mondo innescando la grande recessione.
Spiegata in tre parole: la crisi degli USA è scoppiata perché le banche hanno iniziato a dare mutui per l’acquisto delle case anche a coloro che potevano permetterselo e quindi non potevano rimborsarlo. Da lì una catena di eventi ha portato al fallimento o al forte ridimensionamento di grandi banche d’affari USA che sono andati a pesare sull’economia reale, cioè quella che i cittadini toccano con mano ogni giorno.
La grande recessione è presto arrivata anche in Europa coinvolgendo soprattutto i Paesi con alto debito pubblico, cioè il debito che lo Stato ha nei confronti di altri soggetti (banche, fondi, altri Stati o contribuenti) che hanno prestato soldi utili allo Stato per finanziarsi.
Insomma, per farla breve, nel 2011 l’Italia era nel bel mezzo di una tempesta finanziaria perché si temeva che il Paese non fosse in grado di sostenere il suo debito pubblico, cioè non riuscisse a rimborsare i suoi creditori che, alla lunga, significa arrivare al fallimento.
Cosa c’entrano le banche?
Ora ci arriviamo. Nel 2011-2012 l’Italia era nell’occhio del ciclone e il rischio Paese (cioè il rischio che lo Stato non fosse in grado di rimborsare il suo debito e finanziarsi) era alle stelle. Da qui l’impennarsi dei tassi di interesse che lo Stato italiano e le banche pagano per finanziarsi.
Chiariamo. Il tasso di interesse sono i soldi aggiuntivi richiesti come compenso per ottenere un prestito e tale somma cresce al crescere del rischio Paese. Se presto dei soldi a qualcuno in difficoltà, che rischia di non restituirmeli, pretendo un compenso più alto perché mi assumo il rischio di non rivedere mai più i miei soldi.
Quindi l’Italia e le banche italiane per ottenere soldi in prestito hanno dovuto pagare alti interessi, cioè compensi molto più alti di prima. Questi costi, per riflesso, sono andati a ricadere su cittadini e imprese che hanno iniziato ad avere difficoltà ad accedere al credito.
Ed ecco il famoso credit crunch: le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Le banche chiedevano sempre più garanzie per erogare prestiti ai clienti e interessi sempre più alti. Il risultato è che per imprese e famiglie avere accesso ad un prestito è diventato sempre più difficile quindi le imprese hanno iniziato a licenziare o a fallire e le famiglie a ridurre i consumi.
Così l’economia, come si suol dire, ha smesso di girare. Se la famiglia riduce le spese nel negozio sotto casa, quest’ultimo a fine mese avrà minori incassi per pagare fornitori e dipendenti. Se le imprese licenziano, i lavoratori perdono lo stipendio e quindi la capacità di spesa per la famiglia, e quindi anche la capacità di pagare i mutui. Il ciclo, insomma, si autoalimenta.
Il circolo vizioso dei debiti
La grande recessione in Italia ha provocato il crollo del Prodotto interno lordo, cioè della ricchezza del Paese, della produttività delle imprese e del numero delle aziende fallite in un numero spaventoso. A differenza di altri Paesi con cui ci confrontiamo, non ci siamo ancora ripresi da quella crisi.
Torniamo alle banche. In questo contesto famiglie e imprese che avevano già un mutuo o un prestito con una banca hanno iniziato ad avere grosse difficoltà a rimborsarlo. Se la fabbrica in cui Mario lavorava da 20 anni ha chiuso licenziando tutti, Mario, rimasto senza stipendio, non riusciva più a pagare il mutuo di 30 anni fatto per comprarsi casa dopo le nozze. E allo stesso tempo la fabbrica di Mario, fallita, ha smesso di pagare le rate del prestito che aveva contratto con la banca per pagare i fornitori. Questa situazione moltiplicata per migliaia di imprese e milioni di lavoratori ha mandato all’aria i conti delle banche.
I famigerati crediti deteriorati
Tutti i soldi prestati dalle banche e non restituiti sono crediti deteriorati o sofferenze. Lo scoppio del bubbone dei crediti deteriorati ha iniziato manifestarsi dopo la grande recessione, a partire dal 2013 quando gli effetti della crisi finanziaria avevano già impoverito il Paese, le aziende e le famiglie andando infine, ad incidere sulle banche.
Il picco è stato raggiunto nel 2015 quando i crediti malati hanno toccato il 22% del totale dei crediti: su 100 prestiti fatti dalle banche 22 non erano stati restituiti.
Le banche sono state costrette a “svalutare” questi crediti nei bilanci, perché hanno (lentamente) cominciato a ritenere che una parte più grande del previsto dei soldi prestati non sarebbe stata mai più recuperata. Svalutare significa prendere atto che non avremo mai indietro tutti i soldi prestati e quindi accettare di aver perso parte di quella somma.
Quando Mario ha smesso di pagare le rate del mutuo, la sua banca non ha messo a bilancio tutti i 300mila euro prestati, ma soltanto 100mila, la somma che pignorando la casa di Mario potrebbe recuperare. Ma quei 200mila euro in meno per la banca rappresentano una perdita.
Il Sole 24 Ore spiega che prima della crisi economica i crediti malati pesavano tra il 10-20% dei ricavi (cioè dell’incasso) della banca, mentre oggi i crediti malati valgono quando tutto l’incasso della banca. In questo caso il bilancio non si chiude più con un guadagno, ma con delle perdite.
Le perdite, anno dopo anno, vanno ad erodere il patrimonio della banca portando alla fine al fallimento (per le banche la procedura che porta alla chiusura dell’impresa non è la stessa delle aziende, ma il senso è quello). Per chiarire: se io guadagno 1.200 euro al mese, ma tra affitto, bollette, macchina e spese varie, questo mese spendo 1.500 euro, avrò 300 euro di perdite che devo andare a prendere nel mio gruzzolo di risparmi. Se il mio bilancio personale registrasse tutti i mesi una perdita, arriverei, in breve tempo, a spendere tutto il mio gruzzolo.
Il patrimonio della banca e l’aumento di capitale
Le autorità internazionali hanno stabilito che per essere solida, sicura, la banca deve avere certi requisiti patrimoniali, cioè il suo patrimonio non può scendere sotto un certo livello. Quando accumulando perdite su perdite, si erode il patrimonio, si rischia di finire sotto questa soglia di sicurezza. Ed è lì che interviene per esempio la Vigilanza della Banca centrale europea (se si tratta di una banca grossa) oppure Bankitalia (se si tratta di una piccola banca italiana).
Le autorità chiedono alla banca di riportare il patrimonio sopra il livello di sicurezza con un aumento di capitale: la banca propone agli investitori di comprare nuove azioni e incassa la somma ritenuta necessaria. Secondo una stima del Sole 24 Ore dal 2011 le banche italiane hanno fatto aumenti di capitale per oltre 45 miliardi di euro.
In alcuni casi, però, le banche non trovano investitori interessati a comprare le azioni e quindi l’aumento di capitale fallisce. È successo l’anno scorso con la Banca Popolare di Vicenza, Veneto banca e poi con Banca MPS. Fallito l’aumento di capitale la banca deve essere salvata in qualche modo altrimenti rischia il fallimento vero e proprio.
I tre salvataggi e i rischi per i clienti
A grandi linee si può dire che esistono tre tipi di salvataggi bancari di cui uno però, non più applicabile.
Il Bail-out: il salvataggio dall’esterno è stato vietato dalla normativa europea entrata in vigore il primo gennaio 2016. Fino ad allora gli Stati potevano intervenire per il salvataggio delle banche in difficoltà. Se una banca falliva l’aumento di capitale, riceveva la somma necessaria a riportare il patrimonio sopra il livello di sicurezza dallo Stato. Questo meccanismo è stato criticato e poi messo al bando perché gli Stati hanno speso miliardi per salvare banche in difficoltà rischiando a loro volta il fallimento o comunque facendo pesare i costi dal salvataggio sui cittadini.
Il Bail-in: dal 2016 quindi arriva il salvataggio dall’interno. Lo Stato non può intervenire per il salvataggio della banca che deve “salvarsi da sola”, cioè trovare al suo interno i soldi necessari al salvataggio, senza chiederne allo Stato. Questo però significa coinvolgere i clienti della banca: azionisti, obbligazionisti e in casi eccezionali correntisti con oltre 100mila euro sul conto dovranno dare soldi alla banca per salvarsi. La normativa europea indica una chiara successione di clienti coinvolti nelle perdite: prima si sacrificano gli azionisti, riducendo o azzerando il valore delle azioni; poi si interviene su alcune categorie di obbligazionisti i cui titoli possono essere trasformati in azioni e/o svalutati se l’azzeramento del valore delle azioni non basta a coprire le perdite; infine, solo dopo, si passa ai correntisti. È importante precisare che i depositi sotto i 100mila sono sempre al sicuro. In casi drammatici, che richiedono anche il coinvolgimento dei correntisti, la banca interviene sulla somma che accede i 100mila garantiti.
La ricapitalizzazione precauzionale: è la soluzione grigia, quella che sta tra il bianco (il Bail-out) e il nero (il Bail-in). Per evitare di dover applicare il Bail-in sulla banche in crisi, le autorità nazionali ed europee si possono accordare per la ricapitalizzazione precauzionale, una sorta di via di mezzo: lo Stato interviene dando soldi alla banca per l’aumento di capitale, ma intanto anche azionisti ed obbligazionisti sono coinvolti nelle perdite tramite conversione e/o azzeramento dell’investimento. La ricapitalizzazione precauzionale sarà applicata a MPS che ha fallito l’aumento di capitale da 5 miliardi e ha chiesto l’intervento dello Stato. Di fatto la banca diventerà pubblica, ma anche azionisti e obbligazionisti dovranno rimetterci: in caso, però, di vendita “truffaldina” di prodotti finanziari a rischio, il cliente potrà chiedere una sorta di rimborso.
Per i contribuenti che temono di perdere soldi a causa della crisi del settore bancario possono valere alcune regole d’oro: non comprare strumenti finanziari rischiosi e comunque leggere sempre bene ogni documento prima di firmare (la regola d’oro è semplice: maggiore è il guadagno, maggiore è il rischio); tenersi informati sulla salute della propria banca e su eventuali operazioni di aumento di capitale e infine, evitare di tenere sul conto corrente più di 100mila euro (anche se nessuna banca in crisi è mai arrivata a toccare i conti correnti dei clienti, non si può escludere che si arrivi ad una prima volta).