Il declino di General Electric: il colosso dell’energia Usa ‘cacciato’ dal Dow Jones. Cosa rischiano i 12 mila dipendenti italiani

Articolo scritto per Business Insider Italia

– L’uscita – o meglio, la cacciata – dall’indice Dow Jones di cui era una storica protagonista è soltanto l’ultimo schiaffo ricevuto dalla General Electric nel nuovo millennio. Nato nel lontano 1878 – quando Thomas Edison fondò la Edison Electric Light Company lanciando la lampadina elettrica – il colosso statunitense ha brillato per anni nel firmamento delle corporate a stelle e strisce come multinazionale con un business fortemente diversificato nei campi dell’energia, dell’ingegneria, ma anche della finanza, della sanità e dell’intrattenimento. Ma i tempi sono cambiati. Anche a Wall Street, dove le multinazionali industriali hanno dovuto lasciare spazio all’avanzata dei nuovi colossi tecnologici o dei servizi. E così, a fine giugno, Ge è stata esclusa dal listino che raccoglie 30 Blue Chip e sostituita da Walgreens Boots Alliance, gigante cosmetico e farmaceutico in piena ascesa.

Un segno dei tempi, ma anche la conferma di una crisi economica che Ge si porta dietro ormai da anni e che sta spingendo la società verso una pesante ristrutturazione che prevede un taglio di 12mila dipendenti, la riduzione del Cda e la cessione di asset. La forte volatilità del prezzo dell’energia e il basso livello del prezzo del petrolio incidono fortemente sulla profittabilità dell’azienda e in particolare sui conti di alcune divisioni. Per cercare il rilancio, lo scorso anno, la multinazionale ha annunciato una rifocalizzazione dei business puntando su aviazione, energia e rinnovabili, mollando la presa su trasporti, illuminazione e oil&gas.

In questa rivoluzione, guidata dall’amministratore delegato John Flannery, anche l’Italia rischia di essere travolta. Ge è presente nel Belpaese dagli anni ‘20 del 900, oggi conta oltre 12mila dipendenti che operano in sette diverse divisioni. Il cuore pulsante di GE in Italia sta in Toscana, in particolare a Firenze, dove il colosso è atterrato nel 1994, in piena ondata di privatizzazioni, con l’acquisizione dall’Eni del Nuovo Pignone, storica azienda fiorentina per la produzione di compressori e turbine e per la movimentazione di gas e idrocarburi. La divisione Ge Oil&gas con capofila il Nuovo Pignone, ha moltiplicato il fatturato dell’aziende fiorentina (4mila dipendenti più 1.400 circa di indotto) diventando in poco tempo la realtà industriale più grande della Toscana e il quartier generale globale del business di Turbomachinery solutions.

Dopo anni di idillio, il settore ha iniziato a soffrire un forte assottigliamento dei margini dovuto al basso prezzo delle materie prime. Per rilanciare gli investimenti del comparto, confermando quindi la scomessa sull’oil&gas, nel 2016 Ge rivela le trattative in corso per la fusione della divisione con Baker Hughes, società internazionale di servizi industriali. Il closing della fusione è avvenuto a luglio 2017 con la nascita di una nuova società costituita da due anime: Ge Oil&gas, player industriale (con Nuovo Pignone come capofila) e Baker Hughes, player di servizi per l’industria petrolifera. Due realtà complementari che hanno dato vita a “Bakers Hughes, a GE company” (BhGe) nata tramite lo scorporo da General Electric dell’oil&gas, confluito in una holding dove Ge ha il 62,5% del capitale, a fronte del 37,5% in mano ai soci dell’azienda di Houston.

La nuova entità, guidata da Lorenzo Simonelli, è la prima piattaforma mondiale capace di offrire soluzioni complete nel settore del petrolio e del gas: dal carotaggio sul pozzo fino alla spedizione del combustibile, passando per l’estrazione. Con un doppio quartier generale a Londra e a Houston – mentre Firenze resta centro d’eccellenza della divisione Turbomachinery and Process solutions – la holding ha oltre 70mila dipendenti, attività in 120 paesi, e un fatturato combinato tra i due gruppi di 23 miliardi di dollari (12,9 da Ge, di cui 4,2 da Nuovo Pignone).

La fusione soddisfa tutti e promette la creazione di valore grazie alle sinergie tra le due realtà. Ma bastano quattro mesi di tempo e la nomina del nuovo amministratore delegato Flannery per rimettere tutto in discussione. A novembre 2017, l’Ad ha presentato il nuovo piano industriale per tentare il rilancio della multinazionale annunciando la creazione di un comitato in seno al board per rivedere la posizione di GE nell’oil&gas in modo da ridurre i rischia legati alla volatilità dei prezzi.

Flannery si è trovato davanti due grossi problemi. Da una parte c’è la frenata economica della multinazionale che nell’ultimo anno ha quasi dimezzato il valore del titolo,bruciando oltre cento miliardi di dollari di capitalizzazione(che oggi vale circa 113 miliardi). Oggi l’azienda ha un fatturato da 122 miliardi e un debito di 77 miliardi; nel primo trimestre del 2018 ha registrato perdite 1,14 miliardi. Le perdite attribuibili agli azionisti ordinari sono aumentate da 117 milioni a 1,18 miliardi di dollari. Altro fronte caldo riguarda l’indagine della Sec degli Usa, (la Securities and exchange commission) che ha messo sotto i riflettori il comparto assicurativo dell’azienda che ha accumulato perdite tali da costringere il management a impegnarsi, nei prossimi sette anni, a stanziare a riserva 15 miliardi di dollari.

Un quadro che ha reso necessaria un’ulteriore stretta da parte dei vertici di General Electric. Nei giorni della cacciata dal Dow Jones, il board di General Electric ha approvato la nuova strategia che prevede un alleggerimento dei business per il rilancio della multinazionale: punterà su aeronautica ed energia (che valgono oltre la metà del business di Ge), scorporerà le attività sanitarie e metterà in vendita la divisione Baker Hughes nei servizi petroliferi.

Ad un anno quindi dalla fusione e dalla nascita di BhGe, la casa madre ha deciso di dismettere il suo 62,5% uscendo così dal settore dell’oil&gas. La separazione avverrà nel giro di 2-3 anni perché l’accordo di fusione prevede un lock-up biennale: per due anni dalla data del closing dell’operazione (luglio 2017) Ge non può cedere azioni ordinarie di Bhge, salvo approvazione da parte di un apposito comitato interno all’azienda dell’oil&gas. Non solo: passati i due anni di lockup, Ge non potrà cedere azioni ordinarie ad alcun soggetto che acquisirebbe così più del 15% del diritto di voto in assemblea.

Nonostante i tempi ancora abbastanza lunghi, è ormai chiaro che General Electric si prepari a rompere il rapporto decennale instaurato con Nuovo Pignone, ma la multinazionale fa sapere che l’integrazione tra le due divisioni procedere bene e che non c’è niente da temere per il futuro di BhGe che sarà in grado di camminare sulle proprie gambe.

Nei mesi scorsi, quando l’ombra della cessione era già ben visibile sulla testa di BhGe, l’Ad Simonelli si era affrettato confermare che, come previsto, le sinergie porteranno 700 milioni di dollari nel 2018: “La maggior parte della creazione di valore è sotto il nostro controllo cosa che ci fa molto piacere: quindi, la dipendenza da Ge è minima. Abbiamo un forte modello di governance e operativo, e siamo in buona posizione per mantenere i nostri impegni con gli azionisti, in ogni assetto futuro”.

Le rassicurazioni non placano, però, i timori dei dipendenti BhGe. In Italia Ge Oil&gas ha circa 5.500 addetti tra Firenze, Massa, Bari, Vibo Valentia, Talamona, Casavatore e un cantiere per l’assemblaggio di grandi moduli industriali ad Avenza (Carrara). Più migliaia di lavoratori dell’indotto. I sindacati smentiscono le dichiarazioni di esuberi in Italia, ma ribadiscono la necessità di rimanere vigili e seguire con molta attenzione la riorganizzazione del colosso Usa.

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