Argentina: ok al rimborso degli italiani 14 anni dopo. Ecco cosa (non) ci ha insegnato la vicenda dei Tango bond

Articolo scritto per IBTIMES

L’accordo preliminare è stato sottoscritto, ora manca soltanto il voto parlamentare fissato per il primo marzo e il gioco sarà fatto. A partita finita e tempi supplementari scaduti, gli investitori italiani dopo 14 anni di cause legali saranno rimborsati del 150% dei loro investimenti. In realtà sono pochi gli italiani che hanno aderito alla battaglia legale contro l’Argentina, dato che la stragrande maggioranza aveva già accettato le precedenti offerte del 2005 e 2010.

In pratica la vicenda dei cosiddetti Tango bond, andati in fumo con il default del Paese nel 2001, per gli investitori italiani è finita con l’accettazione di pochi soldi, maledetti, ma subito oppure con l’intero rimborso del capitale (ma rendimento lontanissimo da quello promesso) ben 14 anni dopo. E considerata l’età di molti sottoscriventi è probabile che il rimborso sia riconosciuto direttamente agli eredi. Questa vicenda, insieme a quelle simili di Cirio e Parmalat, ha insegnato qualcosa ai risparmiatori italiani? Visti i recenti fatti legati al salavatggio di Banca Marche, Etruria, Carchieti e Carifferrara, la risposta sembra essere negativa.

Ricapitoliamo la faccenda.

A metà degli anni novanta l’Argentina sembrava un Paese solido con buone prospettive di crescita. In questo momento storico si inserisce un prestito obbligazionario di 14 miliardi di euro che nove grandi gruppi italiani negoziano con il governo argentino con condizioni molto vantaggiose soprattutto in termini di rendimento che sfiora il 10%. Quando nel giro di pochi anni la situazione economica precaria dell’Argentina inizia a farsi sentire e le società di rating tagliano le loro valutazioni alcune banche italiane decisero di scaricare sugli investitori il rischio che ormai era diventato altissimo. Attirati da rendimenti stellari quasi mezzo milione di italiani ha comprato i Tango Bond che di lì a poco sono diventati carta straccia per il default dell’Argentina.

Alcuni investitori sono riusciti ad ottenere la nullità del contratto (per il comportamento scorretto della propria banca) e hanno ottenuto l’intero rimborso da parte dell’istituto, ma per coloro che avevano sottoscritto i bond argentini nel rispetto delle regole, anche se non totalmente consci dei rischi assunti, si è aperto un calvario giudiziario.

La maggior parte degli investitori ha accettato le offerte successive del governo argentino. La prima nel 2005 quando la Casa Rosada offrì un modesto risarcimento del 30%, pagabili in nuovi titoli di Stato. Alla fine, dei 450mila italiani di partenza, gli irriducibili, coloro che non hanno accettato alcuna ristrutturazione, sono 50mila. È per loro che è stato sottoscritto un accordo bilaterale preliminare fra il governo argentino e la TFA (la task force delle banche) per il pagamento in contanti del 150% del capitale (900milioni di euro) per un controvalore di 1,35 miliardi.

Il cambio di passo nelle trattative che si trascinano da anni è avvenuto grazie al nuovo inquilino della casa Rosada. Per anni il governo di Cristina Kirchner ha congelato le trattative con gli investitori italiani, così come con i fondi “avvoltoio” statunitensi, ma con l’arrivo del nuovo presidente Mauricio Macri le trattative sono ripartite. Il governo Argentino vuole chiudere i contenziosi aperti con i creditori per dare al Paese una nuova immagine di fiducia e tornare a finanziarsi sui mercati.

In pratica l’accordo prevede il rimborso del 150% del capitale in contanti per i 50mila investitori che non hanno accettato le ristrutturazioni precedenti del debito e hanno aderito all’azione legale. I soldi, se tutto va secondo i piani, dovrebbero arrivare prima dell’estate. Verrà corrisposto il 150% del capitale investito, per un controvalore di 1,35 miliardi, con un interesse annuo del 2,74% nominale, lo 0,82% reale. Gli investitori italiani quindi riavranno i loro soldi, ma dopo aver combattuto 14 anni e con un rendimento nettamente inferiore rispetto a quello che li aveva convinti a sottoscrivere i Tango bond.

Dopo l’Argentina è stata la volta di Cirio e Parmalat; anche qui migliaia di investitori hanno comprato bond e si sono ritrovati in mano carta straccia. Ad oggi con il comitato “vittime del salvabanche” sul piede di guerra le considerazione da fare sono due: da una parte ci sono le banche che mal controllate da Bankitalia e Consob possono ancora proporre investimenti rischiosi a chi al massimo dovrebbe comprarsi un titolo di Stato dei Paesi occidentali più solidi; ma dall’altra ci sono gli investitori che, nonostante i numerosi precedenti, non imparano mai la lezione.

A difesa dei rispiarmiatori delle quattro banche fallite c’è da dire che in molti casi il rendimento delle obbligazioni subordinate sottoscritte non faceva temere un alto rischio. Se vale, e vale, la regola “alto rendimento = alto rischio” dovrebbe valere, e vale, anche il contrario “basso rendimento = basso rischio”. Nelle situazione in cui non è così, cioè quando una banca propone un investimento con un rendimento basso spacciandolo per sicuro e poi finisce per essere un mucchio di polvere, si può tranquillamente parlare di truffa. Ecco perchè le responsabilità sono da entrambe le parti.

Ormai la lezione per i risparmiatori dovrebbe essere chiara: prima di firmare per la sottoscrizione di un investimento è necessario avere ben chiaro cosa si sta acquistando, perché trasformarsi da “risparmiatore” (cioè da soggetto supertutelato) a “investitore” (situazione ben più rischiosa) rischia di diventare un incubo, come avvenuto numerose volte nel recente passato.

Spesso i documenti bancari sono al limite dell’incomprensibile, ma il risparmiatore non deve prendere la penna in mano finchè non ha visto nero su bianco (verba volant, scripta manent) un prospetto con gli scenari probabilistici di rischio che chiarisca quante probabilità ha di riavere il capitale alla scadenza, di perderlo o di guadagnarci. È vero, non esiste più l’obbligo di inserire gli scenari probabilistici nei prospetti di investimento, ma il cliente può e deve richiederli se non è in grado di valutare in maniera autonoma l’investimento; e se la banca rifiuta per qualsiasi ragione, il cliente dovrebbe rifiutarsi di firmare su due piedi e studiare meglio l’investimento.

Il consumatore deve sapere che la banca ha l’obbligo di fargli compilare il questionario MIFID, che non è un orpello burocratico, ma ciò che lo difende da proposte non adatte per il suo profilo di rischio, e anche in questo caso, se non si è certi di cosa si sta firmando, è necessario non firmare finché non si avranno le idee chiarissime.

Insomma chi compra strumenti di investimento deve avere ben chiaro quali sono i suoi diritti, prendere tutte le precauzioni del caso, partire dal presupposto che alto rendimento = alto rischio e alla fine, se ha comunque paura di rimanerci fregato, non farne di niente oppure scegliere investimenti sicuri (ma poco remunerativi) come i Titoli di Stato italiani. Su quelli (finchè regge l’Italia) possiamo stare tranquilli.

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